di Palmiro Togliatti
* “Rinascita”, ottobre 1956. Testo tratto da: Il Pci e il 1956. Scritti e documenti dal XX Congresso del PCUS ai fatti di Ungheria, a cura di A. Hobel, Napoli, La Città del sole, 2006, pp. 127-130
Molto gravi, estremamente gravi, i fatti di questi giorni in Ungheria. Errore estremamente grave sarebbe, da parte nostra, il non riconoscerlo. Deriva da essi la necessità di un giudizio critico attento, serio, severo. Deriva però anche un’altra necessità, ed è che il militante del nostro movimento e, più in generale, il combattente per la democrazia, per il socialismo e per il comunismo, non si lasci né sorprendere, né ingannare e sopraffare dalla ondata reazionaria, anticomunista, antisocialista e antisovietica, che cerca nella confusione degli avvenimenti, di trascinare l’opinione pubblica dietro di sé.
Per un giudizio critico completo ci mancano ancora troppi elementi. Quello che a noi sembra certo, per il momento, è che tanto in Polonia quanto in Ungheria ci si trova di fronte a un incomprensibile ritardo dei dirigenti del partito e del paese nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti e prendere quelle misure che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza che investivano la linea seguita nella marcia verso il socialismo. In Polonia si è corso il rischio di perdere il controllo della situazione; in Ungheria lo si è, palesemente, perduto […]. Ma perché si è ritardato? La ricerca è complessa. I dirigenti di tutto il movimento comunista furono senza dubbio presi alla sprovvista, non dalla linea politica del XX Congresso del PCUS, rispondente alla situazione che sta davanti a noi, ma dal grave peso della rivelazione degli errori fatti da Stalin. Non si comprese subito che queste rivelazioni e la giusta critica che ne veniva derivata, dovevano essere il punto di partenza di una elaborazione altrettanto critica e di una nuova creazione politica, che scoprissero con coraggio gli errori compiuti nei paesi dove i comunisti sono al potere e con energia ne iniziassero la correzione. Di questo invece vi era prima di tutto bisogno, per far fronte alla nuova situazione che sta davanti a noi, e che non è più quella di un vasto campo assediato e spinto dal nemico quasi sull’orlo di una guerra, ma è quella di un sistema di Stati socialisti che debbono svilupparsi liberamente, con un nuovo ritmo di vita interiore, in un rinnovato sistema di rapporti esterni, ma sulla base di una ferma solidarietà e di una valida cooperazione tra di loro. Di qui il ritardo, che non vi è stato là dove un forte partito, come quello cinese, per esempio, già si era posti e aveva giustamente risolti questi problemi, ma vi è stato altrove, dove, mentre si indugiava nelle mezze misure, si dava però libero sfogo ai sentimenti e ai risentimenti senza giungere a una soluzione politica ad essi adeguata e anche per questo motivo la situazione e il malcontento diventavano certamente più gravi di quanto corrispondesse al peso degli errori e dei difetti che si dovevano e si debbono correggere.
Questo secondo elemento ci sembra sia intervenuto in modo particolarmente grave in Ungheria, creando una situazione non solo contraddittoria, ma persino incomprensibile. Non si può, da una parte, tenere determinati uomini a capo del paese e del partito, dall’altra parte condurre una permanente, assillante agitazione che li accusa di tutti i mali. E l’agitazione è stata continua, e per giunta è stata tale che distruggeva tutto il passato e tutto il presente, senza peraltro elaborare in modo critico e serio nessun problema, né offrire subito un terreno concreto di azione. In questo modo si mobilitavano ed esasperavano i sentimenti, senza che intanto nulla di efficace venisse fatto per dare ad essi una soddisfazione all’infuori di atti destinati ad accrescere ancor di più la esasperazione. Si è così contribuito in modo irresponsabile, da una parte e dall’altra, a creare le condizioni di uno sfacelo.
Come, concretamente, si sia inserita nella situazione la sommossa armata, non sappiamo ancora in modo del tutto esatto. Ma la sommossa è cosa ben diversa da qualsiasi dibattito e da qualsiasi confusione, e soprattutto una sommossa, a quanto sembra, organizzata, che ha una sua ben elaborata tattica, obiettivi precisi, e non finisce quando, nell’ambito del regime esistente, sono attuate misure tali che garantiscono nel modo più ampio un indirizzo politico del tutto nuovo. Alla sommossa armata, che mette a ferro e fuoco la città, non si può rispondere se non con le armi, perché è evidente che, se ad essa non viene posto fine, è tutta la nuova Ungheria che crolla. Per questo è un assurdo politico, giunti a questo punto, volersi porre al di sopra della mischia, imprecare o limitarsi a versare lacrime. La confusione creatasi era tale che hanno aderito alla sommossa lavoratori non controrivoluzionari. L’invito rivolto alle truppe sovietiche, segno della debolezza dei dirigenti del paese, ha complicato le cose. Tutto questo è molto doloroso, tutto questo doveva e forse poteva evitarsi, ma quando il combattimento è aperto, e chi ha preso le armi non cede, bisogna batterlo. Spettava e spetta alla parte che difende il potere socialista costituito, cioè alla parte governativa, compiere i passi anche politici necessari a dividere i nemici aperti, le forze controrivoluzionarie dichiarate, dai lavoratori lasciatisi trascinare su un terreno che non può essere il loro e quindi atti a salvare la situazione. A noi spetta soltanto non perdere il senso della realtà politica e di classe. Sappiamo che l’Ungheria, come tutti i paesi socialisti, è oggetto da anni di un continuo, martellante intervento. La parola d’ordine e la promessa della «liberazione dal socialismo» sono state strombazzate dai governi imperialistici come uno dei cardini della loro politica. E le ha accompagnate una agitazione incessante, condotta con tutti i mezzi possibili, verso un paese dove le vecchie classi reazionarie conservano le loro radici e le loro speranze. Il successo della sommossa non avrebbe potuto portare ad altro che alla soddisfazione di queste speranze, cioè a una restaurazione reazionaria. Non contano le parole, e contano poco anche le intenzioni dei lavoratori trascinati alle armi dalla confusione generale. Anche nel 1919 le truppe dell’Intesa che schiacciarono la Repubblica sovietica ungherese avevano scritto sulla bandiera libertà e democrazia. Poi si vide come andarono le cose[1].
La prima esigenza per noi, dunque, a parte i giudizi che preciseremo o correggeremo sulla base della conoscenza completa dei fatti, è di non lasciarci trascinare, sotto nessun pretesto, dalla corrente rumorosa e sfacciata che, nelle forme oggi più adatte a sfruttare la commozione suscitata in tutti dalla tragicità degli eventi, esprime soltanto la vecchia politica imperialistica della «liberazione» dal potere popolare e dal socialismo. Nei paesi socialisti si sono commessi errori anche gravi: vi sono difetti da correggere occupando posizioni nuove, seguendo nuove linee politiche e nuovi metodi di amministrazione. Non poniamo alcuna riserva a questa necessità, che deve essere rapidamente soddisfatta. Tra i primi lo abbiamo compreso, enunciato, sostenuto con la più grande chiarezza. Ma tra questo […] e la sostituzione alla critica non solo dell’insulto incomposto, ma di giudizi precipitosi o grotteschi, per cui i regimi popolari e socialisti diventano qualcosa di simile al fascismo, e qualcosa di simile a un paese imperialista l’Unione Sovietica, ci passa la differenza che passa tra la notte e il giorno. Un comunista non farà mai la minima concessione a posizioni siffatte. I regimi popolari e socialisti non si distinguono soltanto perché diversa è in essi la struttura economica, e quindi sociale, ma per quello che hanno realizzato, nel campo economico, nel campo politico e nel campo sociale, e che hanno realizzato con l’aiuto dell’Unione Sovietica. Si tratta di paesi che gli imperialisti – e non solo durante la guerra fredda, ma anche ora – hanno cercato e cercano di sconvolgere e strozzare, e che solo nell’Unione Sovietica hanno trovato comprensione e un appoggio materiale tale che sul bilancio stesso dell’Unione Sovietica ha pesato in modo assai grave. È il XX Congresso che ha indicato la necessità delle critiche e delle correzioni. I compagni sovietici non possono che essere d’accordo con esse, né tocca a loro, del resto, attuarle in paesi diversi dal loro. Se vi si opponessero, sbaglierebbero e noi lo diremmo loro apertamente, perché pensiamo che un nuovo sviluppo autonomo dei paesi socialisti non può che rafforzare questi paesi e quindi andare a vantaggio di tutto il mondo socialista, Unione Sovietica compresa.
Questa è la nostra posizione, che non concede nulla ai nemici del socialismo, che non deve mai attenuare la vigilanza contro i nemici di classe, e, quando sono in corso avvenimenti drammatici come quelli d’Ungheria, ci consiglia di non perdere la testa, di guardare alla sostanza delle cose, di non lasciarci dominare da reazioni unilaterali e sentimentali, né trascinare in uno schieramento che non è il nostro.
[1] Nel 1919, pochi mesi dopo la costituzione di un governo dei soviet, in Ungheria avevano prevalso le forze controrivoluzionarie, anche grazie al contributo di truppe francesi e rumene. Il regime autoritario dell’ammiraglio Horthy, basato sulla persistenza della grande proprietà terriera e su un ordinamento agrario di tipo feudale, con forti tinte antisemite, giungerà infine all’alleanza con la Germania nazista.